Ci passavo accanto quasi ogni giorno. Era una scritta murale che recitava: “gli uomini stuprano”.
La prima volta che l’ho vista mi ha infastidito, perché sapevo che chi l’aveva fatta mi avrebbe definito “un uomo” e io non ho mai desiderato stuprare nessuno. E lo stesso si può dire per i miei amici pene-dotati. Man mano che ogni giorno mi imbattevo in questo dogma morale, i motivi della mia rabbia cambiavano. Interpretavo questo dogma come una litania della versione femminista dell’ideologia del vittimismo, un’ideologia che sostiene la paura, la debolezza individuale (con una conseguente dipendenza da gruppi ideologici di sostegno e protezione paternalistica da parte delle autorità) e una cecità di tutte le realtà e le interpretazioni di esperienze che non si conformano alla propria considerazione di se stessi come vittime.
Non nego che esista qualche realtà dietro l’ideologia del vittimismo. Nessuna ideologia funzionerebbe se non avesse un fondamento qualunque nella realtà. Abbiamo tutti trascorso le nostre intere vite in una società fondata sulla repressione e sullo sfruttamento dei nostri desideri, delle nostre passioni e della nostra individualità, ma è certamente assurdo abbracciare la sconfitta definendosi nei termini del nostro vittimismo.
In quanto mezzi di controllo sociale, le istituzioni sociali rafforzano la sensazione di vittimismo in ciascuno di noi nel mentre indirizzano queste sensazioni in una direzione che rafforza la dipendenza dalle istituzioni sociali. I media ci bombardano con storie di crimini, di corruzione politica e corporativa, di conflitti razziali e di genere, di carestia e guerra. Sebbene queste storie abbiano spesso un fondamento nella realtà, vengono presentate abbastanza chiaramente per rafforzare la paura. Ma molti di noi diffidano dei media, e perciò vengono serviti con un sacco di “ideologie radicali”, tutte contenenti un pizzico di percezione reale, ma tutte cieche su quanto non si adegua alla loro struttura ideologica. Ognuna di queste ideologie rafforza l’ideologia del vittimismo e concentra l’energia degli individui lontano da un esame della società nella sua totalità e del loro ruolo nel riprodurla. Sia i media che tutte le versioni del radicalismo ideologico rafforzano l’idea che siano vittime di ciò che è “fuori”, dell’Altro, e che le strutture sociali (la famiglia, i poliziotti, la legge, la terapia e i gruppi di sostegno, l’educazione, le organizzazioni “radicali” o qualsiasi altra cosa possa rafforzare un senso di dipendenza) sono là per proteggerci. Se la società non ha prodotto questi meccanismi (incluse le strutture della falsa, ideologica e parziale opposizione) per proteggersi, dobbiamo solo esaminare la società nella sua totalità e riuscire a riconoscere la sua dipendenza dalla nostra attività per riprodurla. Poi in ogni occasione dobbiamo rifiutare i nostri ruoli come dipendenti/vittime della società. Ma le emozioni, le attitudini e i modi di pensare evocati dall’ideologia del vittimismo rendono un simile rovesciamento di prospettiva molto difficile.
Accettando l’ideologia del vittimismo in qualsiasi forma, scegliamo di vivere nella paura. La persona che ha scritto “gli uomini stuprano” era assai probabilmente una femminista, una donna che vedeva il suo atto come una sfida radicale all’oppressione patriarcale. Ma simili espressioni, di fatto, si aggiungono soltanto ad un clima di paura che già esiste. Invece di dare alle donne una sensazione di forza, rafforza l’idea secondo cui le donne sono essenzialmente vittime, e le donne che leggono il graffito, anche se coscientemente respingono il dogma che gli sta dietro, probabilmente cammineranno per strada con maggiore timore. L’ideologia del vittimismo che pervade gran parte del discorso femminista si può trovare anche in alcune forme della liberazione omosessuale, liberazione razziale/nazionale, guerra di classe e purtroppo di quasi ogni altra ideologia “radicale”.
La paura di una minaccia ad un individuo attuale, immediata e prontamente identificata, può motivare un’azione intelligente per sradicare questa paura, ma la paura creata dall’ideologia del vittimismo è una paura di forze che sono troppo grandi e troppo astratte perché l’individuo possa averci a che fare. Finisce col diventare un clima di paura, sospetto e paranoia che fa sembrare necessarie, persino buone, le mediazioni che costituiscono la rete del controllo sociale.
È questo apparentemente irresistibile clima di paura che crea il senso di debolezza, il senso di essenziale vittimismo negli individui. Per quanto sia vero che molti “liberazionisti” ideologici rumoreggiano con rabbia militante, raramente questa rabbia arriva al punto di minacciare qualcosa. Piuttosto, essi “esigono” (cioè “implorano militantemente”) che quelli che definiscono i loro oppressori garantiscano la loro “liberazione”.
Come tutte le ideologie, le varietà dell’ideologia del vittimismo sono forme di falsa coscienza. Accettare il ruolo sociale della vittima (in una qualsiasi delle sue molte forme) significa scegliere di non creare da sé la propria vita o di esplorare un vero rapporto con le strutture sociali. Tutti i movimenti di liberazione parziale (femminismo, liberazione omosessuale, liberazione razziale, movimento operaio e così via) definiscono gli individui nei termini del loro ruolo sociale. A causa di questo motivo questi movimenti non solo non comprendono un rovesciamento di prospettiva che rompa i ruoli sociali e permetta agli individui di creare una prassi costruita sulle proprie passioni e desideri; agiscono contro un simile rovesciamento di prospettiva. La “liberazione” offerta da questo movimento non è la libertà degli individui di creare le vite che desiderano in una atmosfera di libera convivialità, ma è piuttosto “liberazione” di un ruolo sociale a cui gli individui rimangono soggetti. Ma l’essenza di questi ruoli sociali all’interno del contesto di queste ideologie di “liberazione” è il vittimismo. Così le litanie dei torti sofferti possono venire cantate ancora e ancora per garantire che le “vittime” non dimentichino mai che questo è quel che sono. Questi movimenti di liberazione “radicale” contribuiscono a garantire che il clima di paura non scompaia mai, e che gli individui continuino a vedere se stessi deboli nella propria forza imbrigliata nei ruoli sociali che sono di fatto l’origine della loro vittimizzazione. In questo modo, questi movimenti e ideologie agiscono per prevenire la possibilità di una potente rivolta contro ogni autorità e ogni ruolo sociale.
La rivolta autentica non è mai al sicuro. Coloro che scelgono di definirsi nei termini del loro ruolo di vittime non osano tentare una rivolta totale, perché questa minaccerebbe la sicurezza dei loro ruoli. Ma come diceva Nietzsche: “Il segreto della più grande fertilità e del più grande godimento dell’esistenza è vivere pericolosamente!”. Solo un consapevole rifiuto dell’ideologia del vittimismo, un rifiuto di vivere nella paura e nella debolezza, e l’accettazione della forza delle nostre passioni e dei nostri desideri, di noi stessi in quanto individui che sono più grandi di tutti i ruoli sociali, e quindi in grado di vivere al di là di essi, può costruire una base per una ribellione totale contro la società. Una simile ribellione è di certo alimentata dalla rabbia, ma non la rabbia stridente, risentita e frustrata della vittima che spinge le femministe, i liberazionisti razziali e omosessuali e altri a “chiedere” i loro “diritti” alle autorità. Piuttosto è la rabbia dei nostri desideri scatenati, il ritorno del represso nel pieno delle forze e manifesto. Ma la cosa più importante è che la rivolta totale è alimentata dallo spirito libero del gioco e della gioia dell’avventura, dal desiderio di esplorare ogni possibilità per una vita intensa che la società cerca di negarci. Per chiunque di noi voglia vivere intensamente e senza costrizioni, è passato il tempo in cui potevamo tollerare di vivere come topi impauriti dentro le mura. È l’ideologia del vittimismo, in ogni sua forma, a spingerci a vivere come topi impauriti. Meglio essere mostri folli e ridenti, che abbattono con gioia i muri della società e creano vite di meraviglia e stupore.
Wolfi Landstreicher, 1992