Qui Vivremo Bene

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  Breve manuale d’istruzioni per abbandonare il cimitero dei vivi e sabotare Lucca.
  Breve manuale-distorsione per immaginare forme altre di vita e salvarsi dalla macchina.
  Breve manuale-distruzione per dissidenti cognitivi e cervelli in resistenza.

 

Qui, e dovunque vorremo andare.

  Lucca, la città in cui viviamo, è una città profondamente malata. L’aria che si respira diventa ogni giorno più fetida, più letale. Tra i bottegai di via Fillungo con le loro mille vetrine abbaglianti e gli stradoni di periferia, più simili ai corridoi di un carcere che non a luoghi in cui vivere. Tra i pochi locali dove trovarsi per una birra, sempre più desolati, che ancora cercano di farsi spazio nella soffocante bomboniera quotidiana lasciata in mano ai turisti e la costellazione di telecamere e volanti di polizia costantemente a spiare e controllare abitudini e spostamenti di chiunque, devastando ogni libertà individuale per difendere la noia mortale delle serate lucchesi e il portafoglio rigonfio di qualche affarista ben posizionato nei salotti del potere. Tra il bigottismo e il razzismo strisciante dei signorotti del centro storico e la puzza di fogna che avvampa dalle bande armate dei loro protetti, gruppetti di picchiatori fascisti sempre pronti a fare il lavoro sporco, a fare da valvola di sfogo all’ignoranza e alla miseria culturale serpeggianti in città. Tra la tradizione della destra più becera e l’ipocrisia marchiata PD dei politicanti sinistrorsi al potere, pur sempre capeggiati dagli storici feudatari di zona come famiglia Marcucci e compari, ma ripuliti da un velo di perbenismo e falso progressismo talmente sottile da far trapelare senza troppa difficoltà la piena complicità e sottomissione agli interessi economici del solito gruppetto di banchieri, palazzinari, mafiosi di ogni ordine e grado, speculatori, sfruttatori, padroni, padroncini, e chi più ne ha più ne metta; nonché la solita passione feticistica per il manganello, la divisa e la repressione incondizionata verso chi lotta ogni giorno per rovinare loro la giornata.
  Se a tutto questo si aggiunge la contraddizione tra il numero spropositato di grandi eventi -e corrispettivo traffico di vagonate di milioni di euro intascati da pochi eroi della cartolina lucchese- e la fascia sempre crescente di popolazione in situazione di disagio e povertà -si pensi al numero di famiglie a rischio sfratto in costante aumento, o ai senza lavoro abbandonati da tutto e tutti nella miseria- si conclude facilmente il quadro di una città in preda a una feroce crisi d’identità, drogata dai soldi, dal sangue e dalla mediocrità a tal punto da non riuscire più a distinguere la realtà dal delirio d’onnipotenza. In questo quadro, rafforzato quotidianamente dal silenzio complice di tanta distrazione, s’inserisce la nostra vita.

  Muoversi per le strade in putrefazione di Lucca comporta -e non può essere altrimenti- la necessità di una scelta: continuare a sopportare e supportare nel silenzio quella distrazione, quella mediocrità, rendendosi complici di una perfetta macchina di annientamento psicofisico, umano, emotivo e culturale, oppure tentare di ricordarsi di sé, di cercare un appiglio nella propria umanità, nel proprio senso d’ingiustizia e nel desiderio di ribellione. Muoversi in altre direzioni è diventato per noi una vera e propria necessità di vita, un bisogno fisiologico, un atto di resistenza.
  Per questa ragione abbiamo deciso di rompere la traiettoria prestabilita del consumismo lavorativo e del divertimento a norma di legge. Abbiamo deciso di infrangere uno schema e andare per una volta dove veramente volevamo andare. Abbiamo invaso due edifici abbandonati e per la prima sera il 9 settembre, poi di nuovo il 30 dello stesso mese, abbiamo restituito vita e bellezza a due delle tante perfette incarnazioni del fallimento lucchese. Ci siamo organizzati e insieme a tante persone abbiamo lanciato due TAZ -zone temporaneamente autonome- in cui, anche se solo per una notte, anche se solo per una festa, chi ha partecipato ha dato linfa vitale non soltanto a una serata o ad uno stabile occupato, ma soprattutto alla speranza di poter immaginare e costruire insieme, molto presto, nuovi modelli di vita, forme altre di stare insieme in uno spazio liberato, salvandosi l’uno con l’altro dalle bestialità e dalle disumanità del vivere quotidiano.

 

Vivremo.

  Il mondo che ci circonda, con le sue costanti e le sue abitudini -così ben rappresentate ed enfatizzate dalla feroce banalità lucchese- è un mondo costituito da illusioni e sacrifici. Illusione di potersi arricchire, di potersi affermare, illusioni di successo, supremazia e sopraffazione, che vanno di pari passo con il ricatto, economico e morale, di una sconfitta, della povertà, del fallimento e dell’infelicità, sempre pronte a rovinare tutto a meno che non si rispettino le traiettorie prestabilite e i modelli standardizzati della società. Modelli che vivono e vigono tutto intorno a noi, in qualsiasi momento della nostra vita; modelli che apprendiamo con l’educazione e che non oseremmo mai mettere in discussione per la sola, inquietante, incapacità di poter anche solo immaginare qualcosa di diverso. Un continuo ricatto ad andare a scuola, per poter poi andare all’università, per poter poi trovare lavoro e mantenere una famiglia, per poter poi accettare il più tranquillamente possibile una vita fatta di decenni e decenni che si ripresentano tutti uguali, vissuti a testa bassa, stampati nella più mortale ripetitività; risucchiati e sviliti dalla costante, obbligatoria, necessità di ripetersi all’infinito, con la promessa evanescente di un futuro di riposo e serenità che non arriverà mai e che lascerà presto il posto alla rassegnazione ed all’infiacchimento progressivo di qualsiasi tipo di vitalità, nell’attesa silenziosa della morte. Un ricatto che alimenta continui sacrifici, continue privazioni, senza mai potersi chiedere cosa effettivamente si stia ottenendo in cambio; senza mai potersi chiedere chi veramente ci stia guadagnando. Per noi vivere significa inevitabilmente uscire da questo meccanismo, rifiutarsi di sottostare al ricatto e ripudiare ogni sacrificio e ogni falsa promessa che ci viene offerta in cambio della nostra umanità, del nostro tempo più importante, della nostra vita e della nostra libertà.

  Cercare di salvarsi dalla macchina, insieme ad altre persone, difendendosi reciprocamente e contrattaccando continuamente qualsiasi meccanismo di sicurezza s’inneschi per distruggere il nostro esempio, per oscurare le dimostrazioni pratiche che vivere in un altro modo, lontano da schiavitù, sfruttamento, proprietà e mercato, è possibile.
  Per questo scegliamo ed adottiamo spesso pratiche cosiddette illegali: principalmente perché è proprio chi lavora per il mantenimento dello status quo, per la riproduzione e l’alimentazione dell’ordine presente e regolare della disumanità, che definisce i criteri di legalità. E riteniamo che non vi siano altre vie per contrattaccare se non quelle da loro stessi riconosciute ostili, riconquistando tutti insieme gli spazi, i tempi e i modi che ci vengono impediti. L’illegalità diventa una pratica necessaria di resistenza e sopravvivenza.

  Riteniamo indispensabile uno spazio sociale liberato. Per questo, sabato 9 dicembre scorso abbiamo occupato i locali dell’ex Casina Rossa, uno stabile abbandonato da anni alla distruzione e all’incuria dal sig. Maurizio Esposito Vangone, uno dei tanti affaristi speculatori della città, in odore di mafia e passato agli onori delle cronache per vicende di truffa e associazione a delinquere. La sera stessa più di trecento persone hanno letteralmente fatto rinascere l’edificio, portando luce, musica e vitalità a riprendere il sopravvento sulle macerie. Stavolta, però, la domenica mattina non siamo usciti: siamo rimasti dentro lo stabile con la ferma e decisa intenzione di tenercelo, di sottrarlo alla speculazione e trasformarlo nell’epicentro di un nuovo tipo di organizzazione e socialità a Lucca.
  Di lì a poche ore, dietro precisa volontà politica, si è innescata l’infame macchina repressiva lucchese, di cui constatiamo ancora una volta le vergognose abitudini, sempre pronta a difendere gli interessi economici della solita cerchia di lobbisti e speculatori.
  Pistola alla mano, minacciando di spararci alle ginocchia e alla testa, i poliziotti digrignanti e sbavanti -mentre dei compagni sono saliti sul tetto per difendere l’occupazione- hanno fatto uscire alcuni di noi, che dopo esser stati identificati, ulteriormente minacciati e ricattati, sono stati rilasciati al di fuori del perimetro della proprietà e obbligati ad andarsene a bordo del nostro furgone. Pochi istanti dopo, però, sulla via di casa, sono stati nuovamente inseguiti, fermati senza ragione nel bel mezzo della Sarzanese, trascinati fuori dal veicolo, scaraventati per terra e presi a calci e pugni in pieno giorno dai poliziotti, davanti ai sorrisetti divertiti della digos e allo sguardo allibito della coda di automobilisti che si era venuta a creare.
  Solo grazie all’intervento di altri compagni si è riusciti a mettere in salvo i tre ragazzi e far togliere le manette a uno di loro. Il furgone è stato poi sequestrato, come parte della strumentazione della serata precedente, e si trova tuttora sotto sequestro, mentre due dei tre ragazzi sono stati trattenuti per ore in questura. Questa è stata l’unica risposta ricevuta dalle cosiddette istituzioni -non che ce ne aspettassimo di migliori, ovviamente.

  In seguito a questi fatti, comunque, siamo rientrati nell’edificio, unendoci ai compagni che resistevano sul tetto in un presidio durato fino a tardo pomeriggio, fino a quando abbiamo deciso di uscire. Sui media è partita immediatamente la campagna di delegittimazione: un maldestro tentativo di ricondurre tutto a rave party, droga e orde di casinisti pronti a devastare tutto per il solo gusto della distruzione, nella tipica narrazione tossica dei soliti servili organi di stampa, in prima linea ogni volta si presenti l’occasione per stuzzicare la pancia dell’opinione pubblica sui tasti sempre efficaci della stereotipizzazione, della banalizzazione e della mistificazione. Un tentativo sterile e fin troppo conosciuto, seppure sempre vergognoso e talvolta anche pericoloso, per meritarsi ulteriori risposte da parte nostra, che non siano già contenute nella forza delle nostre idee e delle nostre rivendicazioni.
  Nel frattempo, oltre ai sequestri, si parla già di svariate denunce e infami misure preventive come il fascista sistema repressivo dei fogli di via; è bene che questura, questori o chi per loro si facciano entrare in testa una volta per tutte un concetto molto semplice: non saranno certo le denunce o i metodi da camicie nere a fermarci o intimidirci. Tra di noi, a differenza vostra, non ci sono capi da punire, sottoposti da sviare, singoli da distruggere. Tra di noi, a differenza vostra, nessuno viene lasciato indietro, a nessuno viene rimesso il peso di dover affrontare da solo spese o conseguenze di ciò che decidiamo e costruiamo insieme. Tra di noi, a differenza vostra, esistono fratelli che vivono e si muovono quotidianamente insieme, sempre pronti ad organizzarsi per attaccare voi e quello che rappresentate. Tra di noi, nessuno si lascerà fermare.

 

Bene.

  Nonostante pioggia battente e neve, nonostante esser stati scalciati, strattonati, sbattuti per terra, ammanettati, minacciati a mano armata con una pistola puntata alla testa, abbiamo ritenuto e riteniamo tuttora indispensabile uno spazio liberato. Vogliamo uno spazio, e lo vogliamo adesso con ancora più determinazione di quanta non ne avessimo già sabato 9 dicembre. Vogliamo uno spazio dove vivere, dove confrontarsi; uno spazio dove immaginare, sperimentare e mettere in atto modelli, sistemi, regole e abitudini altri di vita. Uno spazio liberato dalle ossessività del più barbaro individualismo contemporaneo, liberato dalle depravazioni e dalle degenerazioni caratteristiche delle peggiori lotte fra poveri del sistema capitalistico. Liberato dai fascismi, dai razzismi, dalle discriminazioni di genere. Liberato dallo sfruttamento del lavoro, dalla subalternità e dall’impotenza di classe.
  Uno spazio liberato dalle gerarchie, da ogni forma di autorità e sopraffazione, dove salvarsi significa salvarsi tutti insieme, allo stesso modo, senza lasciare nessuno indietro.
  Vogliamo uno spazio in cui ognuno possa contribuire a creare questa alternativa: uno spazio che sia il riferimento per le lotte esistenti e per i militanti, come sede di nuovi momenti di condivisione e autorganizzazione. Dalla palestra popolare e la sala prove alla mensa popolare. Da sportelli e aule studio ai corsi di lingua per migranti. Dalle iniziative culturali e le serate musicali allo spazio abitativo, fin dove le possibilità e le capacità di chi renderà vivo quello spazio sapranno spingersi. Uno spazio in cui porre le basi per un’anomalia di sistema, un virus che possa espandersi e replicarsi.
  Vogliamo uno spazio e, proprio per questa necessità di vita, non ci fermeremo finché non l’otterremo.

Lina Bambo e i ragazzi del Palazzo.
Cercaci nella città.


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Foglio Anarchico Informale