[Leggi qui la versione sfogliabile e clicca qui per scaricare i contenuti extra!]
L’educazione democratica si prefigge lo scopo di modellare il carattere degli studenti nell’accettazione della Gerarchia, dell’Autorità e della Norma. Non è altro che un artificio per dominare. La moderna pedagogia lavora per una causa infame: intervenire in maniera poliziesca nella coscienza degli studenti.
Espressioni come “trasmissione del sapere” e “divulgazione della cultura” non sono altro che cinici eufemismi: nascondono niente più che un lavoro di indottrinamento della popolazione, di ideologizzazione del collettivo scolastico, di diffusione dei miti del Sistema, di conversione dell’ideologia dominante in senso comune.
Arrogandosi una facoltà demiurgica (creatrice di uomini), gli educatori si incaricano di una delicata correzione del carattere dei giovani, di un lavoro molto “illuminato” di forgiatura della personalità, con lo sguardo sempre diretto al “bene” dello studente e a ciò che conviene alla società.
Si impegnano nel modellare soggetti “critici”, “autonomi”, “creativi”, “indipendenti”, “liberi”, “solidali”, “tolleranti”, “pacifisti”, ecc. In questo modo usurpano la voce dello studente, “riformano” l’Istituzione in nome suo, intervengono poliziescamente nella sua soggettività accampando di farlo per il bene stesso del danneggiato.
In breve, incorrono mille volte nell’infamia di parlare per gli altri.
“Il flagello della sfera intellettuale è l’uomo sempre preoccupato dell’educazione degli altri.”
(O. Wilde)
“Maestro! Quello che ti possiamo dare è un calcio nelle palle!”
(Polla Records)
Avvertenza 1: il testo che stai leggendo è frutto di una rielaborazione di un’intervista a Pedro Garcia Olivo, irresponsabile antiprofessore. Lo ringraziamo per le parole e i concetti espressi e ci scusiamo qualora ne avessimo travisato il senso in qualche passaggio e/o nell’insieme.
Avvertenza 2: in ogni termine, dove il genere è utilizzato al maschile è da intendersi anche al femminile e viceversa (es.: professore/professoressa; studente/studentessa; palle/ovaie).
PROFESSORI MODERNI, PROGRESSISTI, RIFORMISTI, IMPEGNATI, CONTESTATORI, RIVOLUZIONARI, COMPAGNI…
Di natura la figura del Professore è una figura autoritaria. Lo voglia o no, qualunque educatore, formato dallo Stato, esercita il potere, governa nell’aula, amministra, dirige gli alunni. L’educatore appare sempre come un baluardo della riproduzione ideologica del Sistema, un segregatore e un addomesticatore sociale, un agente della repressione e della violenza simbolica, un anello decisivo della catena dell’autoritarismo, un correttore del carattere, un re-codificatore poliziesco del desiderio, un esecutore di “lavori sporchi” sulla soggettività dei giovani.
Non esistono “militari pacifisti”, “preti atei”, “sbirri anticapitalisti”, “boia filantropi”. Allo stesso modo non è concepibile un “professore veramente antiautoritario”, “non sottomesso”, “critico” o “rivoluzionario”.
Il lavoro del Professore va lasciato ai sostenitori dello status quo, agli adulatori del Sistema, agli autocrati in miniatura, ai despoti impenitenti e ai vari tiranni. Ad autocrati, despoti e tiranni si riducono quelli che, rivestiti di un’ideologia “sovversiva” o “rivoluzionaria” e ostentando propositi “emancipatori”, si installano nell’apparato educativo e, autoingannandosi tutti i giorni, cercano di rimanere, con lo sguardo fiero e le tasche piene, nell’Istituzione Scolastica.
Autocrati “mascherati”, despoti “anticonformisti”, tiranni “simpatici”… L’autoritarismo rimane in secondo piano, nascosto, le quote di potere concesse allo studente sono apparenti, illusorie… (“concesse”, appunto). È sempre l’educatore a tenere le redini dell’esperienza, glorificato in ciò per la sua Mission(e).
Non c’è niente di peggio degli insegnanti “impegnati”, “critici”, “rivoluzionari”; di tutti quelli che si installano nell’apparato educativo (col Prestigio e col Contratto) e, da quella posizione di potere, soldati al servizio dello Stato e dei suoi obiettivi, hanno ancora il coraggio di presentarsi come combattenti anticapitalisti, antiautoritari o antisistemici. Ipocrisia orribile, quella di questi funzionari della disuguaglianza sociale e dell’oppressione che parlano della necessità di trasformare la società e pretendono dedicarvisi dal proprio posto di mercenari del lavoro. Terribile inganno, quello che si porta dietro il concetto stesso di una “lotta dei professori”; nessuno lotta meno dei professori: l’essenza del loro lavoro consiste nello sradicare ogni minimo germe di legittima resistenza.
Gli studenti non hanno, e non hanno mai avuto, bisogno di professori progressisti o rivoluzionari per resistere, per combattere l’Ordine della Scuola. Vanno sempre avanti a lottare per conto proprio e l’intromissione del professorato “belligerante” è servita sempre e solo mitigare il conflitto, ad assegnargli altri obiettivi, ad adulterarlo. Gli studenti possono negare il sistema scolastico in mille modi diversi: assenteismo, imbroglio nei compiti e agli esami, intimidazione dei professori, luddismo, scioperi, manifestazioni, ecc. In tali contesti il discorso possibilista, riconciliatore, dei professori “moderni” ha seminato solo confusione. Le pedagogie “riformiste” rafforzano il Sistema rendendolo meno odioso.
Lo stesso concetto di Bravo Maestro è un concetto ideologico. Si dice Bravo Maestro (personalità comprensiva, disposta al dialogo, ecc.) colui attraverso il quale la Scuola raggiunge i suoi obiettivi classici (domare il carattere dei giovani, ideologizzare, inculcare il principio di Autorità e rispetto della Norma) senza provocare l’avversione degli studenti verso il proprio processo educativo. Tramite la figura del Bravo Maestro, la Scuola apporta il suo contributo alla riproduzione del Sistema senza correre il rischio di destare la protesta studentesca. Il Bravo Maestro costituisce il risultato massimo dell’Istituzione. Ogni riforma scolastica vuole Bravi Maestri solo per estendere l’area d’influenza della Scuola. Solo una figura le interessa quanto o più di quella del Bravo Maestro: è quella del Bravo Studente, ossia del giovane riconciliato con l’Istituzione, che finisce col condividere l’etica scolastica, il senso comune dei docenti; lo studente integrato, partecipativo, rispettoso, né più né meno che il solito secchione di sempre. Entrambe le figure, di una stupidità e di un conformismo clamorosi, sono l’obiettivo di ogni Riforma scolastica.
RIFORMISMI PEDAGOGICO-SCOLASTICI PROGRESSISTI
Lo sbandierato Riformismo pedagogico si colloca nello spazio della Disobbedienza Indotta, dell’Illegalismo Utile. Il professore riformista insegna a “obbedire disobbedendo”, a dire di sì scuotendo la testa, a praticare la trasgressione tollerata, la rivolta applaudita, il simulacro della lotta. L’Illegalismo Utile è una forma di illegalità tanto utile al Sistema quanto la legalità stessa; una forma di disobbedienza ancora più riproduttrice di ciò che è stabilito di quanto non lo sia l’obbedienza stessa (M. Foucault). Un illegalismo della politica e della convenienza. La riproduzione del Sistema si basa sia sull’ottenimento dell’obbedienza, del consenso, o dell’acquiescenza, da parte della popolazione, e sia sulla canalizzazione (gestione dei rischi) della disobbedienza, del dissenso e delle diversità. La pratica riformista appartiene al dominio della disobbedienza indotta, dell’Illegalismo Utile, così come vi appartiene lo stereotipo dell’educatore moderno, impegnato, critico. Il riformismo viola la legalità vigente nei termini in cui questa anela ad essere violata; col passare del tempo le sue proposte diventano parte della legalità successiva. Si colloca sul terreno di una trasgressione della Norma stabilita dalla Norma stessa. Sulla stessa linea si pongono le battaglie per la democratizzazione degli Istituti Scolastici e per la partecipazione degli studenti alla Gestione. Sono di solito stimolate dall’Amministrazione, dato che suppongono un certo “consenso” sulle questioni educative di fondo e si riducono ad una polemica sul grado e sull’ambito cui questo intervento degli alunni si riferisce. I fasti dei nuovi metodi nascondono un’implicita accettazione del sistema scolastico e, in generale, del sistema sociale.
DAL PUNTO DI VISTA DEGLI STUDENTI…
Attraverso il Riformismo pedagogico il sistema scolastico consegue il vantaggio supplementare di convertire lo studente in un complice della sua stessa coercizione. Il “metodo alternativo” si presenta quasi come una conquista degli alunni, un frutto della loro opposizione alle dinamiche autoritarie tradizionali. Si tratta, in realtà, di un’imposizione dissimulata. Lo studente accetta le nuove regole del gioco perché dipinte di “alunnismo” e perché con esse si mette al bando la detestata figura classica del professore autoritario. In questo modo cade nelle reti del nuovo autoritarismo nascosto e comincia a “rinchiudersi” nel funzionamento dell’Istituzione, a intervenire nel processo educativo (introduce temi di suo interesse nella programmazione, prende la parola in classe, si autovaluta, vota nel consiglio di classe e scolastico, ecc.). Tutto ciò porta a un rafforzamento della Scuola, ad una neutralizzazione dello studente come agente della negazione radicale, una riduzione delle tendenze “evasive” o distruttive tradizionali. La Scuola smette di essere percepita come una macchina contro lo studente e appare adesso come una macchina della quale anche lo studente fa parte. Il Professore continua ad essere il Professore, le figure continuano ad essere delimitate nell’immaginario, non si violano i ruoli, non si altera la relazione; la gerarchia resta intatta, intatti i fini, le funzioni, i propositi; l’Ordine sembra più ordinato che mai, il potere fluisce con più allegria, la pedagogia implicita fa strage. La Scuola continua a distillare disuguaglianza sociale, continua ad insegnare il conformismo, la docilità e continua ad annichilire la curiosità intellettuale e l’immaginazione critica. Soltanto che adesso sembra avere gli studenti dalla sua parte. La Scuola, aggiornando il suo repertorio metodologico, incorporando progressivamente le proposte didattiche “alternative”, è ancor più in grado di introiettare nella soggettività degli studenti i principi di autorità, gerarchia, obbedienza, differenziazione sociale e insindacabilità dello Stato.
La modernizzazione della “tecnica di esposizione” e la modifica della “dinamica delle lezioni” cercano di sfruttare in profondità le possibilità didattiche dei mezzi audiovisivi, informatici ecc.
L’inglobamento pedagogico del progresso tecnologico contemporaneo appare come un modo per contrastare il tanto disprezzato “verbalismo” della didattica tradizionale e “preparare” a un mondo dominato dalla tecnoscienza. Inoltre, il rancido modello della “lezione frontale” è sostituito da altre dinamiche partecipative che richiedono il coinvolgimento dello studente: convegni, assemblee, rappresentazioni, lavori di gruppo, workshop… Si tratta, ancora una volta, di uccidere la tipica passività di tanti alunni (interlocutori muti e senza volontà di ascoltare), passività che, come l’imbroglio nei compiti in classe, è sempre stata una forma di resistenza studentesca alla violenza e all’arbitrarietà della Scuola, un tentativo di immunizzazione contro gli effetti dell’irrefrenabile discorso professorale, un modo di non collaborare con l’Istituzione e di non “credere” in essa. Grazie all’avanguardismo didattico, invece, l’educazione ufficiale diventa più tollerabile, e la Scuola può svolgere le sue secolari funzioni (riproduzione delle disuguaglianze sociali, ideologizzazione e assoggettamento), contando ora quasi sull’acquiescenza degli alunni, sulla gratitudine delle vittime. Oggi è la condotta immobilista del “professore tradizionale” ad essere percepita dall’Amministrazione quasi come un pericolo, come una pratica disfunzionale, generatrice di noia, conflitti, scetticismo da parte degli studenti, problemi di legittimazione. Inoltre, molte delle esperienze di rinnovamento didattico e metodologico vengono effettuate senza neanche operare grandi cambiamenti nei programmi, come se si accontentassero di vivacizzare la divulgazione delle antiche verità, di ottimizzare il rendimento ideologico dell’Istituzione.
In tutto ciò… lo studente è una vittima colpevole (F. Nietzsche). L’autocoazione e la coazione esterna, l’autoaddomesticamento e le strategie esteriori di sottomissione si alimentano sempre a vicenda, sostenendosi mutualmente. Acconsentiamo all’orrore delle forze esteriori per la forza delle ganasce interiori, delle autorepressioni personali; nel frattempo, l’iniquità del reale, l’infamia dell’esistente, prende costantemente argomenti, ragioni (espedienti, procedure e tecnologie) in modo da indurci alla docilità e all’autocoercizione. Nel lungo termine assumono sempre più importanza la forza dell’apparato di autorepressione e il funzionamento dei dispositivi di autocontrollo.
Gli studenti di oggi saranno i cittadini di domani. Una delle caratteristiche più evidenti delle attuali società democratiche sta nella misteriosa e inquietante docilità delle popolazioni, un’assenza di resistenza stupida e quasi suicida, un’assuefazione che ci rende “aspiranti sornioni dalla dignità di mostri” (E. Cioran), complici e partecipi dell’orrore del pianeta, acquiescenti beneficiari di tutte le disuguaglianze e le violenze che il nostro sistema realizza ogni giorno sulla Terra, responsabili morali di tante Auschwitz prodotte negli anni.
…E DEGLI INSEGNANTI
All’educatore “impegnato” o “solidale”, sempre “anticapitalista”, l’apparato del Riformismo Pedagogico serve a rassicurare la coscienza e a godere fino alla fine della “bontà” del suo impiego, dello stipendio, del prestigio e delle vacanze. Il gesto negativo, ripetuto indefinitamente e invariabilmente, viene recuperato come una nuova forma di appartenenza. Nei nostri Istituti, nelle nostre Università, molti dei professori contestatori è già da una vita che contestano, sempre e comunque, cioè “simulando la contestazione”, pagando il prezzo del dominio. Il campo del Riformismo è un dispositivo che razionalizza l’integrazione nell’apparato statale al servizio di coloro che, nonostante la loro ideologia anticapitalista, lavorano per la Scuola capitalista, sotto una determinata struttura, con la sua forma di legalità, la sua definizione sociopolitica, i suoi fondamenti filosofici, potendo solo opporre alcune correzioni tecniche e metodologiche, in funzione delle quali alimentano l’illusione di sviluppare una pratica “critica”, “trasformatrice”, “non servile”. Illusione, perché il semplice rinnovamento o sovversione dei metodi non può alterare la funzione repressiva (e classista) dell’Istituzione; e perché questi professori continuano ad offrire modelli autoritari, dispotico-illuminati, elitari, aristocratici, quasi religiosi, modelli di disobbedienza limitata, di illegalismo ammissibile, di fossilizzazione della critica e permanenza colpevole in luoghi di esercizio del potere.
Risacralizzata, mitizzata, la figura dell’Educatore, simile a quella del predicatore classico, demiurgica, ripristina tutti i diritti dell’etica del Sistema (la moralità di addomesticamento e allevamento) e ritorna a proiettare i concetti ideologici del secolo dei Lumi, iniziatore della dominazione borghese: un sapere critico che deve essere trasmesso alle masse; una minoranza che detiene questo sapere e si consacra alla sua diffusione; una popolazione che vive in uno stato di semioscurità, che deve essere “illuminata” e che è giusto riformare moralmente; il sogno che da tutto ciò seguirà il Progresso dell’Umanità, il miglioramento della società o la sua trasformazione. Diventando invisibile, svanendo in un angolo dell’aula, aumentando la quota di protagonismo e partecipazione degli alunni, l’Insegnante Riformista contribuisce, inoltre, a diluire le contraddizioni scolastiche tradizionali, a limare gli antagonismi, convertendo lo studente, spesso, in complice della propria coercizione, agente della sua stessa sottomissione, istanza di autocontrollo e autorepressione. I professori riformisti sdrammatizzano la base materiale della valutazione (consultazione di libri e appunti durante le prove, lavori di sintesi e di ricerca, piccoli controlli periodici), ma non ne fanno a meno. Per loro la valutazione resta un imperativo. L’esame, la “prova”, continua ad essere il fulcro della pedagogia. L’efficienza della valutazione rimane il fattore principale di interiorizzazione dell’ideologia dominante: ideologia del guardiano competente, dell’operatore “scientifico” in grado di giudicare obiettivamente i risultati dell’apprendimento e i progressi nella formazione culturale; ideologia della disuguaglianza e della gerarchia “naturali” tra alcuni studenti ed altri; ideologia delle doti personali o dei talenti; ideologia della competitività, della lotta per il successo individuale; ideologia della sottomissione conveniente, della violenza inevitabile, della normalità del dolore; ideologia della simmetria di opportunità della prova unitaria e dell’assenza di privilegi…
Componenti essenziali dell’ideologia del Sistema si condensano nell’esame, che funge anche da correttore del carattere, da modellatore della personalità, e abitua, ad esempio, all’accettazione dell’esistente/insopportabile, alla perseveranza nella tortura della Norma. L’esame distilla anche una sorta di ideologia professionale che contribuisce alla legittimazione della Scuola e alla mitizzazione della figura del Professore. I più “rivoluzionari” tra gli insegnanti introdurranno, spesso, anche pratiche di autovalutazione da parte degli studenti. Questo desiderio di coinvolgere il discente nel compito imbarazzante della valutazione, sostenuto da educatori affascinati dalla psicologia e dalla psicoterapia, persegue, nonostante il suo aspetto progressista, l’assoluta fiacchezza dei giovani davanti all’ideologia dell’esame e vorrebbe sanzionare il successo finale dell’Istituzione: che lo studente accetti la violenza simbolica e l’arbitrarietà dell’esame; che interiorizzi come normale, come desiderabile, il gioco di distinzioni e segregazioni stabilito; e che sia in grado, tornato a casa, di bocciare se stesso, occultando così il dispotismo intrinseco dell’atto della valutazione. Se fosse per il “progressismo” benefattore degli insegnanti riformatori saremmo poliziotti di noi stessi e vivremmo nel neofascismo. Grazie a questa invenzione, non c’è uno a controllare tutti (il professore qualificato); non sono nemmeno tutti a controllare ciascuno (la classe e/o l’assemblea); è “ciascuno stesso” che si autocontrolla, che da solo si promuove o si boccia. Convertire lo studente nel poliziotto di se stesso: questo è lo scopo del “riformismo pedagogico” di sinistra. Convertire ogni cittadino nel poliziotto di se stesso: è questa la meta verso cui avanza la Democrazia nel suo complesso. Si tratta, in entrambi i casi, di ridurre al minimo l’apparato di coercizione e di sorveglianza; di camuffare e travestire i suoi agenti, di delegare al cittadino anonimo, e a forza di “responsabilità”, di “civismo” e “educazione”, i compiti decisivi della Vecchia Repressione, riservando a quest’ultima la “gestione” di situazioni e soggetti che fuoriescono dall’ordinario.
Il minimo che possa accadere al professore, come al militare, al celerino, al poliziotto o al secondino, è di soffrire per l’ignominia del proprio lavoro. E ha tutto il diritto di lamentarsi, di protestare per le “miserie” della sua occupazione; ma quella degli insegnanti sarà sempre una “rivolta dei privilegiati”. Non solo: una “rivolta degli oppressori”. Fa inorridire che esistano insegnanti (e poliziotti, militari e carcerieri) “felici”, contenti del proprio lavoro, clinicamente sani. Un insegnante “moderno”, con la coscienza in pace, il sorriso sempre sulle labbra e il cuore in equilibrio, amante del suo lavoro, felice e realizzato, è un’immagine da incubo. Un tipo del genere non solo incarna il più alto grado di stupidità concepibile in questo mondo, ma deve anche essere un omuncolo senz’anima.
ASSEMBLEARISMO E AUTOGESTIONE
L’assemblearismo e l’autogestione educativa promossi dalle Istituzioni scolastiche e da molti professori progressisti si connotano per quello che sono: un gesto “paternalista”, simile a quello del Dispotismo Illuminato; un gesto autoritario, dall’ambiguo valore “educativo”. Comprende l’idea di un Liberatore, di un Redentore o, almeno, di un Cervello che attua ciò che è buono per gli studenti come riflesso per ciò che è buono per l’Umanità. Ai giovani non resta che essere riconoscenti e cominciare ad esercitare un potere che gli è stato “donato”. L’idea che la libertà (intesa come indipendenza, come autogestione) si conquista, come “il bottino che guadagnano i vincitori di una lotta” (W. Benjamin), è esclusa da questo approccio. Inoltre, al di sopra della sfera autogestionaria sussiste un’Autorità che controlla i confini e limita lo sviluppo di tale “libertà”. Con queste strategie il Professore si magnifica: con la ragione dalla sua parte, riorganizza tutto a beneficio degli studenti e, contemporaneamente, al fine di contribuire alla trasformazione della società. Si disegna così un miraggio della democrazia, un simulacro di concessione del potere. In realtà, il Professore continua ad essere investito della piena autorità, ma cerca di renderla invisibile; e la libertà dei suoi alunni è una libertà contrita, ammanettata, adattata a dei modelli prefabbricati. Questa concezione statica della libertà (una volta raggiunta la quale, gli alunni non possono più ricrearla, reinventarla) e della libertà limitata, custodita da un Uomo che coltiva l’assoluta certezza di fornire l’Ideologia Giusta, l’Organizzazione Ideale, è il concetto di libertà dello stalinismo, la negazione della libertà.
La conversione dello studente in soggetto/oggetto della pratica pedagogica e l’attenuarsi del dualismo professore/alunno comportano uno slittamento funzionale per cui si produce una sostanziale trasformazione della Scuola Democratica. Lo studente, avendo partecipato alla definizione dell’Ordine del Giorno, adesso dovrà subirlo. Eretto a protagonista della programmazione delle lezioni, si corresponsabilizzerà dell’inevitabile fallimento di questa e della noia che tornerà quando la routine avrà eroso la novità delle dinamiche partecipative.
Rinchiudendosi nei processi della valutazione, non saprà contro chi rivolgersi quando soffrirà le conseguenze della valutazione discriminatoria e gerarchizzante. La Democrazia affida allo studente i principali compiti della propria coercizione. Ne consegue una invisibilità dell’educatore come agente dell’aggressione scolastica e un occultamento dei processi di dominio che definiscono la logica interna dell’Istituzione.
L’ideologia della partecipazione studentesca mira, sempre e comunque, a neutralizzare lo studente come elemento di critica e di opposizione alla logica scolastica. Negare la Scuola porta a proteggersi da essa, a non collaborare, ad ostacolare il suo funzionamento oppressivo. Partecipare alla dinamica di classe e al “governo” degli istituti significa consolidare l’Istituzione, rinunciare all’autodifesa. I progetti partecipativi concedono al soggetto una certa quota di potere, di protagonismo, un certo margine di autonomia, una certa sensazione di “libertà”, e in cambio lo inseriscono nel funzionamento dell’Istituzione, lo vaporizzano come agente di negazione della stessa, lo disarmano politicamente e ideologicamente. La partecipazione alle dinamiche scolastiche conduce alla smobilitazione studentesca, alla riconciliazione di due figure strutturalmente contrapposte: la figura dell’Alunno e quella del Professore. Ogni istanza riformistica dissimula la privazione di libertà e l’esercizio dispotico del potere attraverso una concessione minima e avvelenata, un simulacro di protagonismo e autonomia. Il cane non smette di essere legato quando gli si allunga il guinzaglio…
LA FIGURA SOCIALE DEL PROFESSORE
L’ideologia insita nel ruolo sociale del Professore si origina nell’idea che sia compito degli “insegnanti” svolgere un’importantissima funzione a beneficio dei giovani: un lavoro “per” loro e “dentro” di loro. L’intenzione sarebbe quella di “modellare” un tipo di uomo (critico, indipendente, creativo, libero), “fabbricare” un modello di cittadino (individuo felicemente adattato alla società o agente del rinnovamento di essa, a seconda delle prospettive), “instillare” certi valori (tolleranza, antirazzismo, antifascismo, pacifismo, solidarietà, ecc.). Questa pretesa è, naturalmente, intrisa di uno spaventoso elitarismo: il postulato di una nutrita aristocrazia dell’intelligenza (il corpo docente) che si consacrerà a questa delicata correzione del carattere o, più precisamente, ad un determinato progetto industriale della personalità. Vi è sottesa un’esplicita mitizzazione della figura dell’Educatore, che si erige ad autocoscienza critica dell’Umanità, in quanto conoscitore e artefice (demiurgo) del “tipo di soggetto” di cui questa necessita per progredire. Si tratta della solita vecchia infamia di voler sempre parlare per qualcun altro. E tutto ciò in un inconfondibile lezzo di “filantropia”, di “opera umanitaria”, di “redenzione”.
Studiare nelle nostre Scuole e nelle nostre Università, in questi “palazzi dell’instupidimento” (Conte di Lautréamont), è pericoloso, dannoso per la salute intellettuale. L’apparato culturale della società borghese è stato progettato, tra le altre cose, per uccidere la volontà di imparare, per estirpare la curiosità intellettuale e assoggettare per sempre il carattere dei giovani.
Coloro che sono stati esposti a questo dispositivo per più anni (medici, dirigenti…) e coloro che non possono ancora vivere alle sue spalle (diplomati, laureati…) presentano, nel carattere, nel comportamento e nel modo di ragionare, alcune “regolarità”, somiglianze e coincidenze atroci, spaventose. Un’intelligenza massacrata, una sensibilità assopita, una mediocre creatività, una capacità di critica nulla: queste sono le caratteristiche tipiche del laureato, pronto a presentarsi ad un concorso che lo converta in professore. Sono anche le caratteristiche degli scienziati, degli specialisti, degli intellettuali e, in generale, di tutti coloro che hanno consumato gran parte della propria vita in questo cimitero dello spirito che è l’Università. Queste persone, così modellate dall’apparato culturale della nostra società, servono solo ad obbedire. E a comandare. Carne da insegnamento, insomma. L’Università, come la Scuola, è il luogo del “Professore”, degradazione tragicomica dell’intellettuale, una persona che non ha nulla a che fare con la Cultura.
ESSERE RESPONSABILI
La nozione di “responsabilità” si rifà a un concetto metafisico dell’Uomo. Richiede, in primo luogo, il postulato dell’unità della coscienza, dell’identità e immutabilità sostanziale del soggetto.
Presuppone, inoltre, che l’individuo abbia, in misura sufficiente, una reale libertà di agire, un’autonomia concreta nello scenario storico. Ma questa è una visione ormai screditata. Come rispondere delle proprie azioni in un contesto sociale in cui siamo semplici fantocci delle circostanze sociali, prodotti di ciò che è storicamente dato, se siamo “pensati”, “parlati” e “mossi” da un’invisibile organizzazione del reale?
Il concetto di “responsabilità” è stato utilizzato per secoli dalla Morale dominante, alloggiato nel principio di realtà capitalista, nel “senso comune” della classe politica, nell’etica plausibile (R. Barthes) dei padroni e degli integrati. Con esso ci hanno voluto educare all’obbedienza assiologica e alla subordinazione psichica, nell’accettazione di un codice ontoteo-teleologico utilizzato per la salvaguardia dell’esistente; con il suo aiuto siamo stati addestrati alla disciplina ripugnante dell’autocostrizione e dell’autovigilanza, in un’indefinita “resa dei conti” davanti a uno specchio interiore nel quale si riflettono senza sosta le figure più odiose della polizia sociale anonima (M. Horkheimer).
L’irresponsabilità consapevole di se stessa, fiera di sé, si scatena, libera, disgrega, complica, disturba, spaventa, fugge e aiuta a fuggire. Solo nell’irresponsabilità vivono oggi, come un attentato a tutto l’ordine sociale, il pericolo e il dissenso di fondo, l’insorgenza abissale, il “buon diavolo” della ribellione senza compromessi.
CHE FARE?
Solo un’altra figura è altrettanto irritante quanto quella del Professore. E’ quella del “teorico dell’insurrezione”, dell’esperto di sovversione. Colui che si ritiene in diritto di dirci come dobbiamo e come non dobbiamo insorgere. Nessuno deve assumere il compito di definire strategie e tattiche “giuste”, schemi efficaci di contestazione, modalità adeguate di resistenza, ecc. Tutto ciò emana un insopportabile fetore di stalinismo, una classica “divisione del lavoro” nell’ambito della lotta (da un lato, coloro che pensano e si incaricano di stabilire gli obiettivi e le modalità di approcci, l’ortodossia della ribellione; e, dall’altro, quelli che realmente si ribellano, la quotidiana carne da cannone, il reale bersaglio della polizia e dei giudici… e dei presidi). Sono già troppi gli “strateghi della lotta”, troppa l’Avanguardia Illuminata, troppi gli “specialisti di resistenza sociale”, troppe le “minoranze illuminate” che pensano di sapere cosa dovrebbe essere fatto. È finito il tempo dei Catechismi Rivoluzionari, delle Sacre Scritture della ribellione, delle Strategie Oggettivamente Corrette e dei pedanti tutti presi a rispondere alla domanda leninista “che fare?”.
La lotta degli studenti è una questione di studenti e sarebbe un’infamia pontificare su di essa. La lotta dei professori… semplicemente non esiste.
“O numi, salvatemi voi dai fulmini della gente per bene…
E salvatemi pure anche da quelli che invece di occuparsi di distruggere, nella battaglia di tutti i giorni, un brano di questa società che ci opprime e che ci schiaccia, perdono il loro tempo a voler insegnare, ad imporre sistemi di lotta e di pensiero a coloro che hanno voluto imparare a lottare e a pensare da sé.
E quando il loro tempo non è consumato a compiere tutto ciò, viene impiegato a guardare in quale misura dovranno essere costruiti i manicomi che dovranno rinchiudere i nuovi ribelli della futura società.” (R. Novatore)
Questo testo non vuole definire come si deve combattere la Scuola. L’intento è quello di smascherare le false opposizioni, le battaglie truccate e provare a far comprendere che l’educazione libera è possibile solo dove finisce la macchina scolastica.
Simpatizziamo con il sabotaggio di tale macchina, aneliamo alla sua decomposizione. Prediligiamo il disordine. Amiamo la radicalizzazione. Siamo per il luddismo, forma legittima di contestazione, insubordinazione assoluta al principio di realtà capitalista, sovversione simbolica di ogni ordine coercitivo, rifiuto intransigente dell’etica del Sistema.
Siamo in sintonia con tutte le forme di luddismo studentesco: distruzione dell’arredo scolastico (banchi, sedie, lavagne, computer…), imbrogli nei compiti e agli esami, falsificazione di firme, intimidazione dei professori, scherzi, parodie, soprannomi, assenteismo alle lezioni, graffiti, furti in biblioteca e in laboratorio, blasfemia, atti osceni, provocazioni… Tutte forme di resistenza studentesca, di difesa della propria soggettività, del proprio carattere, invariabilmente nel mirino di una Scuola poliziesca e di un professorato in ultima analisi mercenario.
Ogni lotta è immorale, tragica e gioiosa allo stesso tempo, aperta alla fantasia, all’umorismo, all’immaginazione, al gioco, al gratuito, alla gestualità, al presunto assurdo, all’incomprensibile e all’incondivisibile, al terrificante, al creativo, al patetico, all’esasperante, al commovente.
Viva l’arte e la follia.
“Giuro che amo di più, immensamente di più,
la pazzia distruttrice
che la conservatrice saggezza.” (R. Novatore)
[Clicca qui per scaricare i contenuti extra!]
Flots de Feux